Di ospitalità, amore e attesa

Lei è una mamma che ogni mattina, dopo aver svegliato i figli per andare a scuola, dopo aver preparato loro la colazione e (ri)letto accanto a loro il libro di Robin Hood, dopo averli aiutati a lavarsi, vestirsi, pettinarsi (mentre marito si trovava altrove, abroad, per lavoro), “accende il semaforo rosso”. Per una decina di minuti, a volte di più, questa mamma smette per un po’ di essere ‘per loro’: invece riordina la casa, svuota la lavastoviglie, raccoglie i panni per il bucato. Se trova il tempo si mette il mascara, ma succede raramente. Scrive la lista della spesa. E rimanda le loro richieste di aiuto a costruire una torre con Lego altissima.

Che mamma è, una così?

Claudia de Lillo scrive che ‘i figli sono ospiti e così vanno trattati’ (D di Repubblica, 10 marzo 2018); che come locandieri, i genitori si devono impegnare a tenere le porte della casa e del cuore sempre aperte, anche trascurando tutto il resto e il contesto.

Eppure i locandieri non hanno anche il dovere di tenere il posto dove accogliere i figli in ordine? Non hanno il dovere di tenere anche loro stessi in ordine, diventando esempio per i loro ospiti, insegnando loro l’importanza di ‘amarsi’, oltre che di sentirsi amati? E poi che ne è dell’insegnamento all’attesa, ad aspettare il proprio turno, a provare a fare ‘da soli’?

Guardavo la mia mamma pettinarsi prima di uscire, il mio papà aggiustarsi la cravatta. Seduta nel corridoio, li osservano, mentre si prendevano cura di loro stessi. Aspettavo. Con le mie domande e richieste per le quali non sempre ricevevo soluzioni pronte e immediate. E mi ascoltavo, pensavo. Mi annoiavo. Poi creavo giochi, immaginavo avventure.

Dopo aver riordinato la casa e essersi preparata un caffè veloce, lei guarda la torre Lego alta 42 pezzi che è stata costruita senza il suo aiuto. Abbraccia i suoi due figli, che saranno sempre graditissimi ospiti, e tendendosi per mano, tutti e tre escono per iniziare la giornata.

Valeria Camia

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