Instabilità lavorativa e salute

Negli ultimi decenni il rapporto tra lavoro e pensionamento è fortemente mutato nelle economie avanzate. Il paradigma affermatosi negli anni Cinquanta-Sessanta, con traiettorie occupazionali stabili, che culminavano con il pensionamento a un’età definita, ha lasciato il passo a una realtà ben più complessa e diversificata. Per una quota crescente di lavoratori in età matura, infatti, gli anni che precedono il raggiungimento dei requisiti per l’accesso alla pensione possono essere segnati da notevoli discontinuità, tra periodi di disoccupazione, ricerca di lavoro e re-impiego a condizioni occupazionali diverse. Vari studi, in passato, hanno analizzato la relazione tra precarietà lavorativa e stato di salute nella popolazione giovane, evidenziando in maniera pressoché unanime come traiettorie occupazionali caratterizzate da un debole attaccamento al mercato del lavoro e segnate da periodi di inattività o disoccupazione abbiano un chiaro impatto negativo sulla salute. Sappiamo forse invece di meno sulle conseguenze dell’instabilità occupazionale tra i lavoratori più anziani in termini di benessere e salute. Un interessante studio ha affrontato la questione esaminando, sulla base di un cospicuo campione di individui precedentemente impiegati nel settore privato in Italia, l’influenza delle traiettorie occupazionali negli ultimi anni di carriera sulle probabilità di sopravvivenza dopo il pensionamento. Lo studio impiega i dati amministrativi longitudinali estratti dagli archivi dell’Inps per ricostruire le traiettorie occupazionali di fine carriera relative a un campione di 224.498 individui andati in pensione tra il 2001 e il 2018 per i quali è possibile osservare l’eventuale decesso fino alla fine del 2018.

Per ciascun individuo è stata costruita una sequenza di 10 punti nel tempo, che rappresenta gli ultimi dieci anni di storia lavorativa. Ciascun punto del tempo è codificato con lo stato occupazionale prevalente in un determinato anno di vita (per esempio, lavoro dipendente a tempo pieno o tempo parziale, disoccupazione con o senza indennità). Gli individui sono stati poi suddivisi in diversi gruppi in base al grado di similarità delle traiettorie occupazionali, distinguendo tra uomini e donne. Lo studio esamina poi la relazione tra i gruppi identificati e la mortalità post-pensionamento, controllando anche per una serie di fattori che potrebbero influenzare sia le traiettorie lavorative, sia gli esiti di salute (ad esempio, l’area geografica di residenza o la presenza di condizioni di disabilità). Nel caso degli uomini, gli individui che rimangono a lungo disoccupati prima del pensionamento hanno un rischio di mortalità significativamente più elevato rispetto a quelli appartenenti al gruppo di riferimento (lavoro dipendente full-time), solo parzialmente mitigato dalla presenza di indennità di disoccupazione in caso di perdita del lavoro. La relazione è particolarmente forte per gli uomini residenti al Nord, dove le traiettorie occupazionali segnate da instabilità lavorativa sono meno frequenti rispetto ad altre aree del paese e dove pertanto potrebbero comportare un maggior stigma sociale, con conseguenze negative per il benessere e la salute. Nel caso delle donne, invece, sono le lavoratrici autonome a sperimentare il maggior incremento nel rischio di mortalità rispetto al gruppo di riferimento, seguite dalle donne che passano da un impiego full-time a uno stato di disoccupazione, soprattutto se con un pregresso occupazionale di tipo operaio, sebbene i differenziali tra i vari gruppi siano nettamente meno marcati rispetto agli uomini.

Per comprendere meglio le implicazioni delle disparità, è possibile derivare i profili di sopravvivenza post-pensionamento sulla base dei parametri stimati dal modello ponendo i fattori di controllo ai valori medi osservati nel campione, distinguendo tra uomini e donne. Per gli uomini che rientrano nel gruppo di riferimento (lavoro dipendente full-time), la probabilità di sopravvivenza a dieci anni dal pensionamento è di circa il 93 per cento, mentre scende a circa il 90 per cento per gli uomini disoccupati per lungo tempo e per quelli che passano da un impiego a tempo pieno a disoccupazione senza indennità. Tra le donne, invece, le differenze nei profili di sopravvivenza a dieci anni al pensionamento sono molto più attenuate – oscillano tra 96,5 per cento per quelle nel gruppo di riferimento e 95,6 per cento per quelle a lungo disoccupate – e statisticamente non significative. I lavoratori senior con traiettorie segnate da periodi di disoccupazione – soprattutto se non coperti da indennità – hanno prospettive di sopravvivenza peggiori dopo il pensionamento, di nuovo in particolare nel caso degli uomini. I risultati dello studio, seppur riferiti al contesto italiano, risultano comunque di potenziale interesse per i governanti dei tanti Paesi obbligati ad allungare la durata della vita lavorativa per alleviare le implicazioni dell’invecchiamento demografico sul sistema previdenziale. Politiche in grado di fornire soluzioni alternative a interruzioni precoci di carriera per i lavoratori più anziani che, volontariamente o meno, non sono in grado di mantenere un impiego a tempo pieno, sono particolarmente rilevanti. Più in generale, è importante adottare politiche del lavoro improntate a un approccio globale, che consentano cioè di calibrare i carichi di lavoro a necessità e competenze specifiche nelle diverse fasi della vita lavorativa. In altre parole, il lavoro, a volte, significa vita.

di Peter Ferri

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