Il migrante nell’era di internet di Raffaele Miraglia

Qualcuno si sta cominciando a chiedere se internet non sia un potentissimo ostacolo all’integrazione dei migranti e qualcuno comincia ad investigare come internet stravolga la nozione stessa che avevamo del migrante, persona che era straniera nel paese dove andava ad abitare e diventava straniero in patria.

Cent’anni fa chi partiva per le Americhe da Mormanno compiva, salvo rare eccezioni, un viaggio di sola andata. Troppa la distanza, troppi alti i costi di un viaggio, il distacco era definitivo. E le comunicazioni con chi era rimasto si limitavano a qualche rara lettera. In America, fossero gli States o l’Argentina, si trovava conforto tra i connazionali emigrati, si mantenevano delle tradizioni, ma era gioco forza integrarsi nel nuovo mondo, a partire dalla necessità di imparare una nuova lingua, di mutare il proprio cibo, di cambiare il modo di vestire. Cinquant’anni fa chi da Mormanno prendeva la strada del Nord Italia o del Nord Europa non recideva completamente il legame con il suo paese. Ogni anno in agosto tornava a casa. Negli undici mesi in cui viveva al nord molto spesso frequentava compaesani, o comunque conterranei, ma aveva contatti limitati con il paese.

La telefonata settimanale ai genitori era un rito, ma non telefonava agli amici che erano rimasti al paese o che erano emigrati altrove. Con questi ci si rivedeva in agosto. Anno dopo anno si diventava stranieri nel proprio paese, un po’ dei turisti. Da settembre a luglio si assimilava inevitabilmente qualcosa della cultura e dei modi di vivere del luogo dove ci si era trasferiti perché il microcosmo dei conterranei era comunque troppo piccolo e i contatti con gli altri erano necessari e vitali. Da qualche tempo a questa parte chi migra e viene, per esempio, in Italia non lascia più il proprio paese. Prima il legame con il proprio paese si è reso più intenso grazie alle antenne paraboliche: stavi in Italia, ma guardavi la TV del tuo paese. Oggi per vedere un film non sei più costretto ad imparare l’italiano, basta che ti colleghi ad internet. Oggi puoi rimanere tifoso della tua squadra di calcio o di cricket perché vedi le sue partite su internet e sei iscritto al gruppo Facebook dei suoi tifosi. Oggi puoi leggere immediatamente il giornale che viene pubblicato nel tuo paese. Oggi con Skype o con WhatsApp dialoghi costantemente con i tuoi familiari e i tuoi amici, sia che siano rimasti al paese sia che siano andati a vivere altrove. E non solo ti parli, ma ti vedi.

Oggi con Facebook o con sistemi similari sei quotidianamente in contatto con gli amici che sono rimasti al paese o che sono andati altrove. Vedi le loro foto, sai cosa hanno mangiato, come gli sta andando, come è diventato grande il loro primo figlio. Entri nelle loro case. Dialoghi con loro ogni giorno e non hai necessità di crearti altri contatti. L’espansione del commercio mondiale non ti costringe più a mutare abitudini nel mangiare o nel vestire. I costi di un viaggio sono diventati molto più accessibili e, anche se arrivi dal Perù o dalle Filippine, è più facile tornare a casa. Sei e rimani uno straniero nel luogo dove sei andato a vivere, ma la cosa finisce per non influire più di tanto, perché sei rimasto e rimani nel tuo paese, grazie a internet.

Grazie a quei contatti, che quelli della generazione pre-internet chiamano virtuali, ma che per la nuova generazione sono reali, molto reali, a tal punto reali da costringerci a ripensare alla stessa figura del migrante. Internet ti separa dal paese dove sei andato a vivere e ti mantiene legato al paese da cui provieni. Sembra un paradosso, ma il più potente fra i mezzi della globalizzazione finisce per rendere il mondo meno globale per il migrante. Rende sempre meno necessario avere contatti e mischiarsi con il paese dove ti sei trasferito. Perché mai devi integrarti nel nuovo mondo quando il tuo vecchio mondo ti appare e ti coinvolge ogni giorno dallo schermo di un computer, di un tablet o di un cellulare?

E questo, lo abbiamo visto tragicamente nel caso del terrorismo, vale anche per quelle seconde generazioni, che un tempo finivano molto spesso per dimenticare persino la lingua dei padri e delle madri e che oggi, in paesi per nulla accoglienti, rinsaldano il legame non con il proprio paese, ma con quello idealizzato dei padri e delle madri grazie a internet.

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