Domani è la giornata mondiale istituita in Italia soprattutto come “festa della donna”.
La prima volta che la data dell’8 marzo apparve nel contesto della Giornata internazionale della Donna fu nel 1914. Si trattò di una serie di incontri che le donne fecero per protestare contro la violenza della guerra in corso e per solidarizzare con le cittadine russe che l’anno precedente, nel 1913, avevano celebrato la loro prima Giornata internazionale della Donna nell’ultima domenica di febbraio, contestualmente ai movimenti pacifisti che auspicavano la fine delle violenze della Prima guerra mondiale.
Così, nel 1917, davanti agli oltre due milioni di soldati morti nel conflitto, le donne russe scelsero l’ultima domenica di febbraio per proclamare uno sciopero al grido di “pane e pace”. Una scelta criticata dai politici e dalla classe dirigente di allora, ma che fu comunque portata avanti: pochi giorni dopo abdicò lo Zar e il governo provvisorio concesse il diritto di voto alle donne. Era il 23 febbraio secondo il calendario utilizzato a quel tempo in Russia. Appunto l’8 marzo secondo quello gregoriano di tutti gli altri Paesi.
Nel 2023 e con la guerra in molte parti del mondo, non solo tra la Russia e l’Ucraina, noi donne dovremmo scioperare dalla mattina alla sera per rivendicare “pane e pace”. Ma i nostri sforzi sarebbero invani. Da un lato perchè chi è in guerra capisce solo la lingua delle armi. Dall’altro lato perchè comprando e vendendo armi c’è indubbiamente una parte del mondo che ne trae profitto. Arricchendosi e tenendo in pugno il resto del mondo.
Se questo 8 marzo certe donne potessero scegliere il regalo che vorrebbero, sarebbe come minimo un arsenale di armi e munizioni. E invece, se va bene, si accontenteranno di un ramo di mimosa.
Ma l‘8 marzo non è la “festa” della donna. Si chiama così solo in Italia. La “Giornata internazionale della donna” – questo il suo vero nome – è nata in ambito socialista, dedicata in origine alle battaglie di cui le donne furono protagoniste all’inizio del Novecento.
Aveva un potente significato sociale e politico di opposizione al potere: la cultura pop degli ultimi decenni, invece, l’ha completamente disperso. Nel corso degli anni la festa della donna italiana è diventata una stucchevole liturgia a cadenza annuale in cui le donne vengono omaggiate con mimose e cioccolatini. O in cui si concedono serate di “libera uscita”, scimmiottando le modalità predatorie maschili.
Ci siamo mai chiesti come mai le mimose sono il simbolo scelto per la “Festa della Donna”, celebrata tutti gli anni l’8 marzo? Certamente il suo significato di forza e femminilità può indicare il carattere femminile, così come la morbidezza e la delicatezza dei suoi fiori. Però esiste un momento storico tutto italiano, cui la pianta è diventata il simbolo della Giornata internazionale della Donna.
Nel 1946 le donne dell’UDI (Unione Donne Italiane), femministe appartenente al PCI (Partito Comunista Italiano), cercavano un fiore per celebrare la prima Festa della Donna del dopoguerra. Fu scelta la mimosa perché era uno dei primi fiori a sbocciare a inizio marzo e aveva il vantaggio di essere poco costosa. Come disse Teresa Mattei: “scegliamo un fiore povero, facile da trovare nelle campagne.”
Teresa Mattei era la più giovane eletta nell’Assemblea Costituente. Nata a Genova nel 1921, era soprannominata la “ragazza di Montecitorio” dove, nel 1946 svolse la funzione di segretaria dell’ufficio di presidenza. Nel 1938 fu espulsa da tutte le scuole del Regno perché antifascista. Nel 1955 fu cacciata dal Pci perché contraria allo stalinismo e alla linea togliattiana. Con il nome di battaglia «Partigiana Chicchi» fu staffetta, protagonista della Resistenza e della lotta di liberazione. Dal dopoguerra si è distinta per il suo impegno nella lotta per i diritti delle donne e dei minori. Negli anni sessanta ha fondato a Milano un Centro Studi per la progettazione di nuovi servizi e prodotti per l’infanzia. Trasferitasi definitivamente a Lari, in provincia di Pisa, ha fondato la Lega per il diritto dei bambini alla comunicazione. È stata sua l’idea di adottare la mimosa come fiore simbolo della festa delle donne.
Nel 2005 Teresa Mattei ha rilasciato un’intervista per Athene, la rivista dell’Università di Pisa, che riproponiamo, citando un passaggio significativo in cui parla dell’Articolo 3 e del «battesimo di cittadinanza»:
«Quell’articolo afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali, ma non cita l’età. Si tratta di una dimenticanza grave, che spesso induce a pensare che i bambini e i giovani non siano veri e propri cittadini. Per colmare questa lacuna insieme ad Alessandro Pizzorusso abbiamo presentato una proposta di ampliamento di questo articolo della Costituzione. Io (Teresa Mattei, a. r) cercherei di coinvolgere maggiormente i ragazzi nella vita pubblica permettendo loro di votare a 16 anni per le elezioni politiche e a 12 per quelle amministrative. In questo senso mi confortano le esperienze positive dei comuni che hanno attuato i consigli comunali dei ragazzi.»
Inoltre, Teresa Mattei aveva presentato la proposta di affidare ogni neonato al sindaco per alcuni secondi, per poi farlo riconsegnare da questi ai genitori. Si tratterebbe di una sorta di battesimo di cittadinanza e attraverso questa piccola cerimonia passerebbe il messaggio che i figli non appartengono solo ed esclusivamente ai genitori, ma fanno parte di una comunità più ampia.
Tutto questo e molto di più racchiude simbolicamente una semplice mimosa.
Piu notizie
Il futuro dell’alimentazione anglosassone: meno posate e più panini
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
Si fatica a far passare il concetto di rispetto e di libertà della donna