Clima di incertezza per i cosiddetti “EU Nationals in UK” nel Regno Unito.
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Di LaR per “La Notizia“
Macché gesti di buona volontà, rassicurazioni o garanzie: a tutti gli effetti gli italiani e gli altri cittadini europei residenti in Gran Bretagna sono caduti ostaggio dei futuri, potenzialmente complicati e potenzialmente rancorosi negoziati per la Brexit. Il loro status? Tutto dipenderà da come andranno le trattative per l’uscita del Regno Unito dall’UE caldeggiata dalla maggioranza dei sudditi di Sua Maestà al fatidico referendum del 23 giugno.
Al momento, quindi, i cosiddetti “EU Nationals in UK” non hanno alcun diritto automatico di soggiorno, stanno alla finestra, stanno in purgatorio. Il ministro per il commercio estero Liam Fox, euroscettico doc, è stato chiaro ai primi di ottobre durante un intervento ai margini del congresso annuale del partito conservatore: a lui, la volpe, sembra una mossa astuta tenere nell’incertezza due milioni di europei installati – parecchi da decenni – in GB. Ogni altra strategia significherebbe “rinunciare ad una delle nostre più importanti carte negoziali e a questo punto non avrebbe molto senso”. “Il governo – ha detto il ministro – vorrebbe dare rassicurazioni ai cittadini europei in UK ma ciò dipende dalla reciprocità con altri paesi”. Malgrado le parole del “brexiter” Liam Fox non c’è (almeno per il momento) da panicare, come ha d’altronde indicato l’ambasciatore d’Italia a Londra Pasquale Terracciano dagli schermi di Bloomberg Tv durante una tavola rotonda sulla Brexit: “Non credo che ci possa essere un governo in questo paese pronto a cacciare due milioni di europei. Penso che i loro diritti saranno rispettati. Ovviamente è diverso per quanto riguarda gli europei che vorranno stabilirsi qui in futuro”. Curiosamente il principale partito d’opposizione, il laburista, che nella campagna per il referendum del Brexit ha mantenuto un profilo colpevolmente basso permettendo così a sorpresa la vittoria delle forze anti-Ue, ha reagito alle parole della volpe del governo britannico facendo fuoco e fiamme: “Fox – ha tuonato il deputato laburista Chuka Umunna – dovrebbe capire che sta parlando di persone e non di chips per il poker. Invece di giocare d’azzardo sul futuro di quella gente, Liam Fox e il suo governo dovrebbero avere la decenza di garantire a tutti gli europei residenti qui il diritto di rimanere”. “Quelle parole grossolane metterebbero in imbarazzo persino Farage”, ha aggiunto nel suo affondo anti-volpe il deputato laborista europeista riferendosi allo xenofobo e tribunizio ex-leader dell’UK Nigel Farage che ha avuto un ruolo-chiave nella promozione del Brexit in vista del referendum del 23 giugno. Contro la strategia di Fox si è scagliata anche la laburista Ann Pettifor, direttrice del think thank “Policy Research on Macroeconomics”, quando a Bloomberg Tv ha partecipato con l’ambasciatore Terracciano alla tavola rotonda sulla Brexit: ha accusato il governo di “giocare un gioco pericoloso” con gli europei residenti in UK e ha bollato come “ingiusto” e “disastroso” il fatto che i poveri “Eu Nationals in UK” vengano “tenuti in ostaggio” in vista dei negoziati.
In effetti Fox ha detto in modo molto più puntuto e molto meno rassicurante quanto era già implicito nelle esternazioni della “nuova Thatcher” Theresa May, subentrata a David Cameron a luglio nella guida del governo.
“Noi – ha detto la May al congresso conservatore annuale di Birmingham due giorni prima del brutale chiarimento di Fox – proteggeremo i diritti dei cittadini europei qui residenti nella misura in cui i britannici in Europa saranno trattati alla stessa stregua e sono sicura che sapremo trovare un accordo”.
In teoria non ci sarebbe nulla da preoccuparsi, soprattutto se si risiede in GB da almeno cinque anni e in base alle regole attuali si è quindi acquisito un diritto permanente di soggiorno. E poi, perché mai i paesi dell’Europa continentale dovrebbero fare storie sui diritti dei cittadini britannici che vivono dentro i loro confini? Ma – c’è un ma, un grosso ma – tutto dipenderà dal andamento dei negoziati tra Londra e Bruxelles sul controverso, intricato divorzio. Come escludere a priori che le trattative possano prendere una piega recriminatoria con una escalation di reciproche ripicche e che a farne le spese siano anche i malcapitati cittadini europei residenti in UK ? Qualche paese, ad esempio la Francia, sembra tentata dal desiderio di farla pagar cara al Regno Unito per lo strappo Brexit al fine di evitare ulteriori defezioni. Tra l’altro “l’immagine” dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna non brilla dopo che a giugno un centro di ricerca dell’Università di Oxford ha sentenziato che tre quarti di essi non ha i requisiti minimi necessari ai lavoratori extracomunitari per ottenere un visto di soggiorno in UK. D’altra parte, se si giudica dalle reboanti prese di posizione al congresso conservatore, il governo May – deciso a invocare entro fine marzo 2017 l’articolo 50 del trattato Ue avviando così ufficialmente il processo di uscita dall’Unione europea che a quel punto dovrà essere completato entro un biennio e quindi entro il marzo 2019 – appare pronto a picchiare duro sull’immigrazione anche se ciò significherà rinunciare ad un pieno accesso al mercato unico europeo e anche all’unione doganale.
Dopo aver ripetuto per tutta l’estate il mantra “Brexit means Brexit”, Theresa May ha dato a inizio ottobre la sua autorevole interpretazione della Brexit: per lei il referendum ha segnalato soprattutto una cosa e cioè che i sud- diti di Sua Maestà vogliono un pieno recupero della sovranità nazionale e una drastica riduzione dell’immigrazione. Così hanno chiesto con la loro “rivoluzione tranquilla” del 23 giugno e così sarà.
Sulla scia di Theresa May la neo- ministro degli Interni Amber Rudd ha annunciato (avvertendo: “non sono razzista”…) un significativo giro di vite nella concessione dei visti di studio e di lavoro per gli extracomunitari (da estendere ovviamente agli europei appena completata la Brexit). Un’idea è quella di permettere ai giovani stranieri di stabilirsi permanentemente in Uk soltanto se hanno finito gli studi a Oxford, Cambridge o in una delle 24 università del cosiddetto Russell
Group. “Gli immigrati – ha detto in puro stile Ukip – devono qui per riempire i buchi nel mercato del lavoro, non per prendere i posti di lavoro che il popolo britannico può occupare”.
Al congresso conservatore di inizio ottobre Amber Rudd ha insistito sul tasto che le aziende devono dare la preferenza ai cittadini britannici impegnandosi anche in corsi di addestramento e aggiornamento così da “riportare l’immigrazione a livelli sostenibili”. A questo fine ha avanzato una controversa proposta (poi ritirata dopo una valanga di proteste e critiche) e cioè che le aziende pubblichi- no le liste dei loro dipendenti stranieri (con l’implicito obiettivo di metterle alla gogna se hanno fatto manbassa di personale ‘overseas’). Di sicuro se le esternazioni di Theresa May e di Amber Rudd al congresso conservatore si tradurranno in fatti si andrà a quella che è stata chiamata una “Hard Brexit” e cioè ad una drastica, totale rottura con l’Ue: niente più accesso quindi al mercato unico e probabilmente nemmeno all’unione doganale, con gravi contraccolpi per la City e per l’industria manifatturiera.
Dal premier italiano Matteo Renzi alla cancelliera tedesca Angela Merkel passando per il presidente francese Francois Hollande, tutti i leader europei l’hanno detto e ridetto: se limiterà la libera circolazione delle persone con gli altri paesi UE il Regno Unito deve scordarsi il mercato unico.
“Vogliamo – ha sottolineato a questo proposito l’ambasciatore Terracciano riferendosi anche a dichiarazioni di Renzi – i più stretti rapporti possibili tra Ue e Regno Unito. Ma non si posso- no avere i diritti di uno stato membro e i doveri di uno stato terzo. Ci deve essere un equilibrio tra diritti e doveri. C’è un legame tra libertà di movimento e mercato unico”.
Il diplomatico italiano ha tra l’altro ricordato che esiste una direttiva europea – la 38 del 2004 – che in teoria già permette di espellere i cittadini degli altri paesi UE senza lavoro da tre mesi e senza prospettiva di trovarne uno. “Per mettere in pratica questa diretti- va – ha spiegato l’ambasciatore – c’è però bisogno di procedere ad una registrazione, cosa che molti considerano non-britannica”.
L’ambasciatore non ha aggiunto altro in merito ma è molto probabile che con la Brexit e con il governo May in marcia verso la secessione dall’Europa se ne vedranno tante di cose “non britanniche”…
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