Dopo il voto Brexit, sono state raccolte alcune storie di italiani a Londra.
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Di Francesco Ragni, con la collaborazione di Chiara Luise per “Londra, Italia“
Delusione, preoccupazione, rabbia. Le reazioni degli italiani di Londra al voto Brexit sono un mix di emozioni: c’è chi ha pianto; chi si sente tradito, rifiutato, e c’è chi considera il voto un segnale che forse è arrivato il momento di andarsene. Nei social media prevalgono commenti con i quali si alternano dolore e ironia, si condividono le notizie, si cerca di capire, di trovare qualcuno a cui dare la colpa (compito facile), e di immaginare che cosa succederà (compito difficile). Tramite email viaggia l’invito a firmare improbabili petizioni o a lanciarne di nuove. Eppure, superato lo choc iniziale, nonostante la prospettiva di uscita dall’Unione Europea, subentra la voglia di andare avanti. Tra le persone con le quali abbiamo parlato, camminando per le strade di Londra, prevale l’ottimismo e la speranza, e la voglia di restare in quello che per molti è ormai il paese di adozione.
Daria
Daria, 24 anni, napoletana, è a Londra da 3 anni. Studia Architettura alla London University e nel fine settimana lavora al banco salumeria di una macelleria. “La prima sensazione è stata negativa, per noi sarà piú complicato”, ci racconta, ma non mostra ansia o rabbia. Non è preoccupata per sé (“Io dovrei essere ok, mi sento tranquilla”), ma per i suoi amici e parenti che avevano in programma di fare un’esperienza a Londra. “Mi spiacerebbe se non potranno venire a vivere qui persone che mi sono vicine. Ad esempio, mia sorella voleva trasferirsi qui”. A modo suo, sembra giustificare la maggioranza di britannici che ha dato la vittoria al Leave: “capisco le ragioni per le quali hanno votato così. Sempre piú persone lavorano qui e spendono i soldi nei loro paesi, mettendo in subbuglio l’economia inglese. Credo che questa sia la ragione principale”.
Roberta
È positiva anche Roberta, 19 anni, di Boccadifalco, vicino Palermo. A Londra da 1 anno, lavora da Blanche Eatery, un bar-pasticceria a South Kensington. “Farò tutto il possibile per restare qua” ci dice parlando con un forte accento British. “In un anno ho conosciuto tantissima gente nuova – di parti del mondo che non sapevo neanche esistessero – ho imparato l’inglese, sto imparando lo spagnolo parlando con i colleghi. Ho fatto esperienze che a Palermo non avrei potuto fare. Mi piacerebbe lavorare nel settore del turismo, e spero che Londra mi dia questa possibilità”. Cosa farai, chiediamo, se il Governo britannico dovesse vietare la permanenza a tutti coloro che guadagnano meno di una certa cifra? “Cercherò di fare in modo di rimanere, di guadagnare” risponde. “Prenderò 2-3 lavori perchè proprio non voglio tornare. E se proprio sarò costretta troverò un altro paese, ma non l’Italia”.
Federica
È piú articolata la prospettiva di chi appartiene a un’altra generazione e vive nella capitale da decenni. Federica, 53 anni, a Londra dal 1992, è molto critica sul modo con il quale si è arrivati a questa decisione. “È scioccante. Il destino dell’Inghilterra lasciato in mano a gente poco istruita – molti smettono di studiare a 16 anni – e vecchi, che non possono avere visioni realistiche e progressistiche”. Che effetto ha svegliarsi, dopo 24 anni di residenza in UK, con tre figli nati e cresciuti nella capitale, e scoprire di essere un ospite, le chiediamo: “Sembra di essere tornati indietro. Non ho mai preso il passaporto britannico – perchè pensavo di far parte di una comunità, non immaginavo mi sarebbe mai servito quello britannico”. Il tuo feeling? “Delusa, molto delusa. Non mi sento tradita dagli inglesi, perchè quelli che hanno votato Leave non sono gli inglesi che conosco io, che vivono a Londra, portano avanti la nazione, pagano le tasse. Mi sento tradita da una massa di persone che sta a casa e guarda la televisione. Il referendum non si sarebbe dovuto fare” conclude Federica.
Laura e Sophie
È incredula sua figlia Laura, 19 anni, studente al London College of Fashion. Il suo è il punto di vista di un’italiana nata e cresciuta nel Regno Unito, che vede come il suo paese. “È sconvolgente. Siamo parte dell’EU. Non possiamo lasciarla”. La sua amica Sophie, inglese, studentessa universitaria a Exeter, è arrabbiata con i suoi coetanei che non si sono presentati a votare (l’astensione tra i giovanissimi è stata attorno al 60%). “Mi dispiace molto per i ragazzi di 16-17 anni che non hanno potuto votare. Ho molti amici tra loro che sono furiosi per questa decisione, perchè avrebbero votato in favore di Remain se avessero potuto. Io posso studiare in parte all’estero come parte del mio corso di laurea, non so se loro avranno le stesse opportunità”.
Elizabeth
Sentimenti contrastanti per Elizabeth, 27enne italo-britannica laureata in lingue, attualmente in cerca di occupazione. È contraria ai risultati del referendum ma comprensiva nei confronti di chi ha votato Leave. “Le zone che sono state più euroscettiche sono il nord dell’Inghilterra e il Galles, zone con un alto numero di disoccupazione grazie alla signora Thatcher. Per anni sono stati ignorati loro e i loro problemi e credo abbiano votato come protesta contro il governo. Un po’ come chi ha votato i 5 Stelle. E nonostante la mia delusione nei confronti dei miei compatrioti e concittadini, mio malgrado comprendo la loro rabbia nei confronti dell’establishment”.
Altri riflettono sull’effettiva riuscita del “sogno europeo”, come Elisa, 30 anni, una infermiera italiana che ha sempre amato il Regno Unito: “Da cittadina europea fino all’ultimo credevo e speravo in un altro risultato, ma in fin dei conti l’Europa cosa sta facendo concretamente per i propri cittadini? Sta unendo o dividendo? Sulla carta i principi europei non si discutono, ma a livello pratico mi pare che ci sia da fare ancora molta strada. Ben pochi ti dicono ‘Io sono Europeo’”.
“Penso che questo sia un pasticcio che toccherà ai giovanissimi di adesso, e forse ai loro figli, sistemare” ci dice Karin, 25 anni, laureata in lingue per la cooperazione internazionale, padre italiano e madre svedese. “Oltre alle conseguenze economiche, ci sono quelle identitarie e culturali. Noi siamo nati per essere cosmopoliti, viaggiatori, multiculturali, per conoscere il mondo e farci conoscere dal mondo, e per imparare, perché ogni luogo che si visita è un tassello in più del proprio puzzle personale. In questo senso, questo è un enorme passo indietro nella storia”
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