Fino a pochi decenni fa, i tatuaggi – almeno in Occidente – erano perlopiù il segno distintivo delle persone che la società civile considerava non del tutto perbene: i criminali minori, i marinai e gli uomini di fatica, in misura minore le donne di malaffare… Inevitabilmente, la pratica è stata giudicata in maniera diversa in epoche storiche differenti, ma più spesso in modo negativo. Sotto l’Impero romano, i tatuaggi erano riservati ai gladiatori e agli schiavi. La Bibbia contiene (Levitico 19:28) un divieto preciso contro l’usanza. Infatti, il Secondo Concilio di Nicea del 787 d.C. vietò i tatuaggi ai cristiani, in quanto una pratica pagana.
Naturalmente, con i primi movimenti di protesta nati negli ultimi decenni del secolo scorso, la questione è diventata una sorta di ‘sfida generazionale’ e i tatuaggi si sono trasformati in un simbolo di liberazione – e, col passare del tempo, più i tatuaggi sono diventati grandi e vistosi, più si dimostrava di essere ‘liberati’. Da qui poi, siamo arrivati ai massicci e altamente visibili ‘tribal’ e simili, ormai passati sostanzialmente di moda.
L’usanza di tatuarsi in sé è sempre popolare – secondo dati pubblicati, il 48% della popolazione italiana avrebbe ormai almeno un tatuaggio – anche se la moda sta visibilmente rallentando. Oltre a diventare più piccoli, i tatuaggi tendono a semplificarsi, perdendo i colori e spesso passando a punti del corpo non sempre visibili. Stiamo entrando nell’epoca del tatuaggio forse sì, ma minimalista…
James Hansen
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