Le criptovalute sono una fandonia

Finalmente, ribadisco, finalmente, le criptovalute stanno crollando. Per esempio, “Terra” era una cosiddetta “stablecoin” ancorata al dollaro fino al 9 maggio scorso, quando si è sganciata, cominciando una caduta inesorabile che l’ha portata a valere oggi poco più di un centesimo. Le stablecoins sono criptovalute di seconda generazione concepite per ovviare al secondo difetto di bitcoin, l’estrema variabilità del valore, che lo rende una pessima moneta e solo un oggetto di speculazione. Il primo, insormontabile, difetto è che bitcoin e le sue sorelle non hanno alcun valore legale: sono come i soldi del Monopoly. Gran parte delle stablecoins, in teoria, invece mantengono il valore stabile grazie alla convertibilità in valuta ufficiale a una parità prefissata. La convertibilità, a sua volta, è assicurata da adeguate riserve, sicure e liquide. Così, per esempio, le tre più importanti stablecoins – Tether, Usd Coin e Binance Usd – raggiungono oggi assieme un valore di oltre 100 miliardi di dollari, coperto in proporzioni variabili da contante, titoli del tesoro, effetti commerciali, obbligazioni.

Terra si proponeva di fare un passo in più in direzione del decentramento, sostituendo la copertura in moneta ufficiale con l’agganciamento a un cryptoasset “satellite” denominato “Luna”. Il prezzo veniva stabilizzato alla parità di un dollaro, ma attraverso la compravendita non di dollari, bensì di Luna. L’algoritmo prevedeva che 1 Terra potesse sempre essere scambiato con 1 dollaro di Luna. Se il prezzo di Terra scendeva a 99 centesimi, i trader potevano guadagnare 1 centesimo acquistando Terra in cambio di Luna. L’arbitraggio riportava il prezzo di Terra a salire verso 1 dollaro. Viceversa, se il prezzo di Terra saliva a 101 centesimi, i trader avevano l’incentivo ad acquistare Luna e a convertirla in Terra per guadagnare l’1 per cento. Naturalmente, ciò faceva aumentare la quotazione in dollari di Luna che invece era variabile e che, grazie alla forte domanda di Terra, è giunta a sfiorare 120 dollari. Per sostenere ulteriormente la domanda di Terra, il suo ideatore, il sudcoreano Do Kwon, creò Anchor Protochol, una piattaforma di prestiti automatizzati su blockchain che prometteva un interesse del 19,5 per cento sui depositi in Terra. Non è chiaro come si dovesse generare un rendimento tanto elevato, ma ci sono forti sospetti che fosse alimentato esclusivamente dall’arrivo di nuovi depositi. In sostanza, la catena di blocchi è diventata una classica e banale catena di Sant’Antonio! Non c’è da meravigliarsi che il sistema sia collassato. Un prelievo massiccio da Anchor ha innescato una fuga da Terra e da Luna, impedendole di sostenersi a vicenda e facendo crollare il valore di entrambe: la loro capitalizzazione congiunta, dopo aver sfiorato i 60 miliardi di dollari, è precipitata quasi a zero. Come merita.

Ma la corsa al ribasso si è estesa presto a tutto il comparto delle criptovalute. Innanzitutto, a bitcoin, perché il sistema Terra/Luna si era dotato di riserve in bitcoin per oltre 2 miliardi di dollari e le ha dovute liquidare rapidamente nel disperato tentativo di difendere l’ancoraggio. Più in generale, perché chi aveva “investito” in Terra e Luna ha dovuto coprire le perdite vendendo altre criptovalute. L’effetto contagio è amplificato dal fatto che gli investimenti in criptovalute sono sempre più diffusi: dal 2015 a oggi, la percentuale di americani che hanno acquistato criptovalute è aumentata dall’uno al 16 per cento. Il 21 per cento degli hedge funds detengono asset digitali, con un investimento medio pari al 3 per cento del capitale investito. Il prezzo di bitcoin è sceso a 20 mila dollari, registrando una perdita del 70 per cento rispetto ai massimi toccati lo scorso novembre. Le criptovalute non sono titoli. E non lo diventano nemmeno se, anziché criptovalute, si chiamano “cryptoassets”. L’alternativa è considerare un cryptoasset come un asset a cui non corrisponde alcuna liability, alla stregua di un bene fisico, come l’oro o qualunque altra materia prima. A patto di riconoscere che, a differenza di una materia prima, un cryptoasset di per sé non ha alcun valore d’uso (anche quando la blockchain su cui è registrato è suscettibile di applicazioni assai utili). Perciò, nella misura in cui un cryptoasset si qualifica per essere un bene digitale (più o meno scarso), senza alcun contenuto giuridico, avrà un valore unicamente fiduciario – a dispetto della pretesa del fantomatico inventore di bitcoin, Satoshi Nakamoto, di creare “un sistema di pagamento elettronico basato sulla prova crittografica anziché sulla fiducia. Di conseguenza, il suo valore sarà strutturalmente esposto al rischio di scendere irrimediabilmente, al venir meno della fiducia, fino ad annullarsi. Come meritano.

Peter Ferri

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