Il passaggio in una notte da donna libera a “immigrante di seconda generazione”

Commento a caldo Di Silvana Mangione all’indomani dell’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti.

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Di Silvana Mangione, vicesegretario Cgie e membro del Pd negli Usa per “Gente d’Italia”

L’8 novembre sono andata a dormire donna libera in un Paese apparentemente democratico. Il 9 mattina mi sono svegliata immigrante di seconda classe perché donna, in pericolo in un Paese che ha appena dimostrato di essere razzista, xenofobo e misogino.

Non ho mai creduto che la democrazia americana fosse la migliore del mondo. Propendo da sempre per quella italiana che, sia pure con tutti i suoi singulti, sussulti, singhiozzi e incongruità, è solidamente basata su un sistema di checks and balances costituzionale che ha dato storicamente vita a troppi Governi, ma ha in sé l’antidoto a qualunque deriva dittatoriale e non ostacola l’esperienza e il senso dell’internazionalità, nemmeno quando, come ora, l’Italia appare molto più chiusa e provinciale di quanto non fosse negli anni sia facili che difficili della fine del secolo scorso. Meglio troppi Governi che uno solo che dura vent’anni.
L’America ha eletto il presidente che, tragicamente, la rappresenta in questo momento: un bambino settantenne, capricciosamente infantile, bugiardo patologico, egocentrico, secondo lui onnisciente e infallibile, sciupafemmine in virtù dei suoi soldi, guadagnati prima di tutto attraverso forti iniezioni di denaro a fondo perduto da parte del papà e quattro successive bancherotte chieste per non pagare quanto dovuto a fornitori e dipendenti, dopo che aveva già spremuto tutto il ricavabile dalle imprese in questione.

Uomo che ha dichiarato al fisco di aver perso 18 miliardi di dollari e quindi non paga tasse da vent’anni. Uomo che vuole riportare i posti di lavoro in USA, ma produce all’estero tutto quanto serve alle aziende sue delle tre mogli (ex e non). Uomo indagato per la frode della Trump University e per un progetto residenziale per cui si è fatto dare anticipi congrui dai futuri proprietari di villette mai costruite.

Il 7 novembre sul New York Times è uscito un bellissimo articolo dell’ultranovantenne Harry Belafonte, che analizza Trump e i suoi sostenitori di una “America Great Again”, sospirata da quella maggioranza bianca, poco istruita, acrimoniosa e silente, che vive negli Stati del Sud e in quelli con i confini tirati con il righello, che tiene in casa armi da guerra in virtù di una lettura sbagliata della Costituzione e sogna di tornare agli USA senza diritti civili per le minoranze etniche, razziali e di genere, alle fabbriche che sputano fumi carcinogeni e alle miniere di carbone chiuse negli anni ’50.

Questa stessa maggioranza non ha mai digerito l’elezione a due mandati consecutivi del primo presidente afro-americano, che è stato scelto in primis soltanto perché, anche allora, questo Paese, ben diverso da quello che viene raccontato nei film di Hollywood o nei salotti delle università della Ivy League, non poteva certamente votare a favore di una donna preparata e intelligente alla Casa Bianca.

Nella notte dell’8 novembre ho ascoltato con orrore i pundits, le tuttologhe, i soloni italiani e americani rovesciare addosso a Hillary tutte le critiche possibili per mettere la solita foglia di fico al posto dell’analisi vera di quello che è successo in questa campagna elettorale. Facciamolo insieme, invece, partendo dalle colpe devastanti dei media USA fin dalle primarie.

Hillary in casa democratica e lo stuolo degli altri 16 candidati in quella repubblicana non facevano notizia. Gli introiti pubblicitari sarebbero diminuiti se si fosse applicata la par condicio a tutti loro. Bisognava quindi dare spazio ai due nuovi istrioni, Sanders da una parte e Trump dall’altra, che ci sono stati propinati a getto continuo per mesi da tutte le stazioni tv Usa che si occupano di politica e commentati a getto continuo a sinistra e a destra, di qua e di là dall’Atlantico. Ambedue avevano come obiettivo principale la demolizione della vita di servizio della Clinton ancor prima di essere nominati candidati presidenziali dei rispettivi partiti, cosa cui aspiravano con le seguenti credenziali: Bernie Sanders, ex sindaco di Burlington, 42.417 abitanti, poi senatore federale per lo Stato del Vermont, il 49esimo degli USA per popolazione con soli 625.741 abitanti; Donald Trump, tycoon immobiliare il cui sistema di scatole cinesi è stato rivelato dal New York Times e prova senza alcun dubbio che la sua dichiarazione di essere “ricco, molto ricco, sono così ricco da non crederci”, per l’appunto non deve essere creduta, perché non è vera. Gli insulti di ambedue alla Clinton (che hanno ripreso e rafforzato quelli di Obama durante le primarie del 2007) l’hanno appiattita a simbolo dell’establishment.

Alla Convention democratica Sanders si è portato la muta urlante dei suoi millennials, i giovani che hanno compiuto diciotto anni nel XXI secolo, idolatrano il nonno innovatore, hanno inscenato manifestazione dopo manifestazione all’inno di “Bernie or bust”, Bernie o morte, e alle presidenziali hanno preferito votare per il candidato libertario piuttosto che per Hillary e, così facendo, hanno consegnato alcuni Stati chiave a Trump. Dopo le nomination “The Donald” ha rincarato la dose dipingendola come una specie di arpia, responsabile di qualunque cosa sia andata storta nella storia degli USA dal 1992 in poi, come ladra e corrotta, lanciando lo slogan “lock her up”, mettila in galera, ripetuto in cori strillati ad ogni rally, mentre Trump prometteva come primo atto del primo giorno della sua presidenza di dare l’ordine di incarcerarla, come se fosse possibile ai sensi delle leggi di qualunque paese civile.

Nel frattempo gli hacker russi del trumpiano amico Putin e Assange di Wikileaks inondavano il mondo con le e-mail della campagna democratica alle primarie e quelle di Hillary segretario di Stato, ma nessuno li ha denunciati. Quindi, proprio quando si dava il via in molti Stati alle votazioni anticipate, è scoppiata la bomba del computer dell’ex congressman Anthony Weiner, già costretto a dimettersi nel 2011 per aver pubblicato su internet i selfie nudo ed eccitato. Bene, Weiner è il marito divorziato di una ex assistente di Hillary, che ha usato quel computer anche per comunicare con lei. Sappiamo tutti che le indagini di qualunque forza dell’ordine rimangono segrete fino al momento in cui non si riscontra l’esistenza di infrazioni o di crimini. Ma no! Nel caso della Clinton, il direttore dell’FBI è corso a scrivere ai repubblicani nel Congresso USA del ritrovamento delle e-mail che “avrebbero forse potuto essere” alcune delle e-mail mancanti “ma lui non lo sapeva ancora”.

Il direttore è James Comey, un conservatore nominato dall’allora presidente George W. Bush e confermato nel 2013 da Obama. Comey aveva già scagionato Hillary per la questione del server privato, con una plateale conferenza stampa seguita da una testimonianza davanti ai repubblicani, e soltanto ai repubblicani, del Congresso USA in cui la accusava di grande negligenza, ma affermava l’inesistenza di elementi di reato. E qui entrano in scena i due ignobili cani da guardia di Trump: Newt Gingrich, già presidente della Camera dei Rappresentanti, costretto a dimettersi per questioni di donne, anche lui alla terza moglie come Trump e futuro ministro degli esteri degli USA; e Rudy Giuliani, l’ex sindaco di New York, che si è rifatto una verginità col suo comportamento dopo l’11 settembre, ma prima d’allora era caduto al più basso livello di gradimento nella Grande Mela. Rudy ha ammesso di aver saputo della bomba da amici dell’FBI di New York due giorni prima dell’annuncio da parte di Comey. Ovviamente, il livello di decibel del coro “Mettila in galera” è aumentato. Otto giorni dopo Comey ha dichiarato che non c’era nulla di nuovo o di pericoloso fra le e-mail verificate, ma era troppo tardi. Il vantaggio di quasi 10 punti a livello nazionale della Clinton era svanito per sempre.

Questa che vi ho appena raccontato è la dinamica delle votazioni, condita da una strategia di “voter suppression”, l’impedimento procedurale alla espressione di voto da parte delle minoranze che si sanno vicine ai democratici, iniziato da anni con la ridefinizione dei distretti elettorali negli Stati a maggioranza repubblicana, con la cancellazione dall’elettorato attivo di chi è registrato per i democratici, ma ha commesso il sia pur minimo errore nella compilazione dei moduli e l’obbligo, dichiarato illegittimo, ma applicato comunque, della presentazione di un documento emesso dal Governo federale per essere ammessi al voto.

A sua volta, la dinamica della campagna presidenziale ha annegato nella canea degli insulti, delle sceneggiate da vaudeville, nelle accuse non dimostrate né dimostrabili quanto la Clinton stava presentando come programma della sua possibile presidenza. Giuliani (il gentiluomo che aveva avuto la cortese idea di dichiarare in TV alla sua prima moglie di aver avviato le pratiche di divorzio da lei per sposare l’amante) per favorire l’elezione dell’altro gentiluomo, il Trump alla sua terza moglie (alla quale ultima ha fatto il regalo di un affaire extra-maritale mentre lei aspettava il primo figlio) al secondo dibattito fra Hillary e Trump, ha fatto sedere in prima fila le donne che hanno accusato Bill Clinton di attenzioni poco corrette. Le classiche situazioni del bue che disse cornuto all’asino.

Al di là di tutto questo fango che ci sta soffocando, chi ha scelto Trump credendo di votare contro l’establishment non ha compreso che proprio Trump ne è il massimo esponente, dato che concentra in sé il ruolo di manipolatore a proprio vantaggio e allo stesso tempo di fantoccio a vantaggio della ritenzione del potere di quel piccolo gruppo di conservatori che hanno provocato l’allargamento della forbice della detenzione della ricchezza fra il 5% degli straricchi e il 95% del resto degli abitanti di questo Paese e ancora farà aumentare il divario. Chi crede che il “movimento” iniziato da Trump darà una svolta concettuale e propositiva alla politica americana non ha capito che il movimento era soltanto un escamotage per dare ad un numero sufficiente di elettori la motivazione per seguirlo.

Ci saranno invece lunghe sedute all’interno delle stanze dei bottoni, per stabilire il do ut des al fine di non creare fratture e guidare, per quanto possibile, quest’uomo che non ha la minima idea dei rapporti internazionali e dell’amministrazione dello Stato a fare quello che deve fare per proteggere gli interessi suoi e dei personaggi che gli hanno tenuto il sacco mentre scippava la democrazia negli USA. Primo fra tutti il fatto che Trump presidente non metterà i suoi affari in un blind trust, affidato a persona sconosciuta, ma li farà gestire apertamente dai suoi figli!
Ho molta paura di quello che succederà e vi terrò al corrente della versione vera delle cose, non di quella edulcorata servita su un piatto d’argento dai media dell’establishment. Grazie dell’attenzione.

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